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Rapporto di Oncologia per i diritti del malato

Cristina Mazzantini, N. 11 novembre 2012

Sono solo 3 strutture su 33 ad aver adottato un sistema di incentivi o disincentivi per la registrazione in cartella clinica del dolore provato dai pazienti durante il ricovero e le terapie, a 2 anni di distanza dalla legge (la numero 38 del 2010) che invece lo impone. E ancora va rilevato come 24 strutture hanno almeno predisposto un apposito spazio in cartella clinica, mentre le altre 9 ne sono prive. Le attese sono molto diversificate anche all’interno delle singole Regioni, oltre che tra le diverse Regioni. Questi sono solo alcuni dei principali dati che emergono dal Rapporto, presentato recentemente a Roma, "Oncologia: personalizzazione delle cure, rispetto del tempo, consenso informato. Focus sul cancro al colon retto". Si tratta di 33 strutture di 13 diverse Regioni "passate al setaccio" da Cittadinanzattiva-Tribunale per i diritti del malato, in collaborazione con FAIS (Federazione Associazioni Incontinenti e Stomizzati), al fine di valutare le politiche di personalizzazione delle cure e d’umanizzazione delle stesse in un ambito molto delicato, quale è quello dell’oncologia. Il Rapporto è stato realizzato anche grazie al sostegno incondizionato di Merck Serono. Si analizzano ora alcuni dei principali dati emersi partendo dal federalismo delle Regioni a quello delle ASL. Si nota come da una rilevazione sui tempi d’attesa tramite CUP ermerga che, la prima visita sia stata erogata entro 10 giorni nella maggior parte delle strutture aderenti alla rilevazione (25 su 33). E ancora 4 strutture la eroghino tra gli 11 e i 30 giorni. Una sola azienda ospedaliera tra 31 e 60 giorni. Si è, inoltre,voluto rilevare quali fossero i tempi di attesa minimi e massimi per alcune tipologie di interventi programmati. Lo scostamento più diffuso tra tempi minimi indicati dagli ospedali e le "priorità terapeutiche standard" stabilite invece dalle indicazioni nazionali (pari a 15 gg) è di 5 giorni (20 anziché 15). Ci sono però realtà in cui il divario tra tempi minimi e priorità terapeutica standard è più ampio anche di 20 giorni (oltre il doppio dell’attesa). I tempi massimi per l’approccio terapeutico palliativo, invece, definiti nel documento che abbiamo preso come riferimento, che prevedono il termine di 60 giorni, sono generalmente rispettati. Fanno eccezione 3 realtà, con tempi massimi di attesa di 70, 75 e 120 giorni. Uno dei punti che destano maggiore preoccupazione è la difficoltà per i cittadini di accesso ai tempi di attesa per interventi chirurgici e procedure invasive in regime di ricovero ordinario/day hospital, poiché in rarissimi casi l’informazione è trasparente e immediatamente disponibile. Una lettura dei dati relativi ai Percorsi Diagnostico Terapeutici (PDT) fa emergere drammaticamente la variabilità di tempi per le stesse prestazioni tra le diverse realtà ospedaliere. La sensazione che lascia è di smarrimento e della nascita di un vero e proprio federalismo delle attese nello stesso territorio regionale. Si fanno due esempi: uno relativo al cancro del colon retto e l’altro relativo al cancro della mammella. Nel PDT del cancro del colon retto l’erogazione della prima visita è prevista entro 3 giorni in 4 realtà, ma si può arrivare ad attendere, nel pieno rispetto del PDT stabilito ad esempio da singole realtà ospedaliere, anche 60 giorni; e ancora per l’intervento l’attesa può oscillare da 3 a 30 giorni; per la radioterapia da 10 a 30 giorni e così via. Quale sarà il PDT migliore? Come può sceglierlo il cittadino? L’innovazione in alcuni casi è un alleato e al servizio della personalizzazione e della sostenibilità. In oncologia si vanno affermando test predittivi, come l’EGFR o il KRAS che possono consentire di evitare il modello prescrittivo "trial-and-error", vale a dire "proviamo e vediamo come va", con un dispendio di risorse per il Sistema Sanitario Nazionale e un costo in termini di tossicità da farmaci per i cittadini. Anche in questo quadro i tempi per l’esecuzione del test predittivo KRAS sono molto variabili con strutture che danno risultati entro la settimana, ed altre che lo rendono disponibile tra 16 e 20 giorni (quasi il triplo del tempo!). Nel caso del cancro della mammella, si assiste a una situazione analoga: prima visita in 3 giorni o 60 giorni; intervento in 3 o 30 giorni (lo zero in questo caso è un numero che conta!), la radioterapia può essere erogata in 3 o 90 giorni. Particolarmente preoccupanti sono i dati relativi all’accesso alle cure, in particolare per le persone che risiedono nelle Regioni del Sud, e relative, oltre ai tempi di attesa, alle distanze tra servizio e abitazione ( 66,7% in generale, 73,9% al sud); alle difficoltà di spostamento individuali ( 43,6% nazionale, 52,2% sud), alla mancanza di persone che possono accompagnare a visita ( 41% nazionale, 47,8% sud). Una recente ricerca ha mostrato non solo il costo sociale della patologia oncologica, ma ha anche quantificato i "LEA sommersi" vale a dire quei servizi che i care giver offrono per andare a compensare mancanze del sistema, o le attività che svolge il paziente stesso: oltre 36.000 euro in 5 anni per costi diretti e indiretti; 12.000 euro il "costo" per l’assistenza all’amico/familiare del care giver. Riconoscere il ruolo attivo del paziente significa metterlo nelle condizioni di poter scegliere consapevolmente il percorso di cura e, al tempo stesso, garantire gli strumenti utili per potersi auto-gestire, almeno negli atti più semplici, nel riconoscimento delle complicanze, nell’orientamento verso i servizi ecc. Solo in 12 strutture su 33 esistono protocolli e procedure per formare il paziente al self management; anche se durante il ricovero, gli infermieri ad esempio sono molto impegnati nell’informazione ai pazienti su interventi diagnostici (26 strutture) e terapeutici (28 strutture), al dolore che potrebbe provare (26 strutture), ai possibili effetti avversi (24). Dunque le liste di attesa e umanizzazione sono le urgenze su cui intervenire. Alla luce dei dati illustrati, Cittadinanzattiva-Tribunale per i diritti del malato indica alcune priorità di intervento:

  • Umanizzare davvero l’oncologia. Per farlo, occorre applicare nei reparti l’art. della legge 38/10, vale a dire la registrazione in cartella clinica del dolore (provato e espresso dalla persona assistita), con le sue caratteristiche e l’evoluzione nel corso del ricovero.
  • Garantire il sostegno psicologico, anche ai familiari, in ogni fase dell’assistenza: dalla comunicazione della diagnosi alle cure ospedaliere e domiciliari, fino alle cure palliative e all’elaborazione del lutto.
  • Rafforzare politiche aziendali finalizzate all’umanizzazione delle cure, all’attenzione e all’ascolto della persona da tutti i punti di vista, comprendendo il consenso informato, anche attraverso momenti di formazione e di confronto.
  • Garantire la trasparenza, l’adeguatezza e l’omogeneizzazione (tra Regioni all’interno dello stesso territorio regionale) dei tempi di attesa per ogni prestazione (dalla visita, al ricovero, all’intervento, all’esecuzione di esami e di test genetici), rispettando gli standard temporali previsti dal Ministero della Salute e rendendo pubblici per i cittadini i tempi che ogni realtà aziendale è in grado di assicurare, anche per gli interventi e l'esecuzione di prestazioni di anatomia patologica e test genetici. Si devono considerare sia la Relazione sullo Stato Sanitario del Paese 2009-2010, Ministero della Salute, che le risposte attuali del SSN, ma anche i tempi di attesa nelle patologie oncologiche.

Le polveri di legno e i raggi uv sono tra le prime cause per tumori sul posto di lavoro
Le polveri di legno e i raggi ultravioletti sono tra le principali cause di luogo di lavoro. È quanto emerge da due studi svizzeri, che hanno indagato cancro sul legame tra rischio oncologico e professione. Con un'adeguata prevenzione, avvertono gli esperti, è possibile ridurre significativamente il pericolo di ammalarsi. Le ricerche, presentate recentemente a Berna, sono state condotte dall'Istituto Universitario Romando per la Salute al lavoro (Ist) di Losanna, per conto del sindacato Unia e del gruppo agrotecnologico Syngenta. Il primo studio, pubblicato sulla rivista Frontiers in Oncology, ha esaminato gli effetti delle polveri di legno prodotte dalle macchine impiegate nelle falegnamerie. «Dall'indagine risulta che queste polveri costituiscono la terza causa di cancro sul posto di lavoro: solo in Svizzera circa 80mila persone sono regolarmente esposte a questo fattore di rischio, soprattutto falegnami e carpentieri», ha spiegato Evin Danisman, responsabile del progetto. Il calore sviluppato durante la lavorazione del legno produce degli idrocarburi policiclici aromatici (Ipa) responsabili di tumori dei seni nasali e paranasali. Si tratta di una malattia piuttosto rara con un elevato tempo di latenza (30-40 anni), che però è 40 volte più frequente in falegnami, carpentieri ed ebanisti, rispetto ad altri professionisti. «Dallo studio emerge che la maggior parte degli operai lavora in atmosfere che superano la soglia massima raccomandata di 2 milligrammi/metro cubo di polvere di legno, con punte massime fino a 168 mg/m3», ha precisato Danisman. La situazione può essere facilmente migliorata indossando una semplice maschera che copra naso e bocca. Una buona manutenzione dei macchinari consente inoltre di abbassare le temperature sviluppate nella lavorazione del legno e di conseguenza di ridurre le emanazioni di Ipa. Il secondo studio, pubblicato su Photochemistry and Photobiology e sul British Journal of Dermatology, ha invece esaminato il problema del cancro della pelle dovuto alla prolungata esposizione ai raggi Uv: la Svizzera, con 15mila casi all'anno di cui il 10% di tipo maligno, è uno dei Paesi europei con il più alto tasso di melanomi e carcinomi. Finora, ha sottolineato il responsabile dello studio David Vernez, la prevenzione si è rivolta soprattutto ai bagnanti. Vi sono tuttavia molte professioni esposte agli stessi rischi: in particolare i lavoratori nel settore della costruzione, gli agricoltori e i viticoltori. Chi lavora all'aperto è da 3 a 5 volte più esposto al rischio di sviluppare una malattia di questo tipo. Grazie a un manichino-robot, l'Ist ha misurato le quantità di l'esposizione ai raggi Uv delle varie attività e ha testato diversi tipi di abbigliamento protettivo.

L'obesità aumenta il rischio di ritorno del cancro al seno
Le donne in sovrappeso o obese hanno una maggiore probabilità di ritorno del più comune cancro al seno, indipendentemente dai trattamenti ricevuti la prima volta. Lo afferma uno studio pubblicato sulla rivista Cancer, secondo cui il fenomeno è dovuto ai cambiamenti ormonali e all'infiammazione dovuti al grasso in eccesso. «Abbiamo trovato che l'obesità alla diagnosi è associata con il 30% di rischio maggiore di recidiva del tumore, e con un 50% di probabilità aumentata di morte», ha spiegato Joseph Sparano del Montefiore Medical Center di New York. «Questo implica che trattamenti in grado di combattere i cambiamenti ormonali e l'infiammazione potrebbero ridurre i rischi». Lo studio è stato compiuto sui dati di tre sperimentazioni cliniche di trattamenti per il tumore al seno positivo ai recettori degli ormoni, cui corrispondono circa due terzi di tutti i tumori alla mammella diagnosticati. Tutte le pazienti erano in buono stato di salute, fatta eccezione per l'indice di massa corporea.

Scoperte mutazioni genetiche che sviluppano il cancro al cervello
Identificate serie di mutazioni genetiche responsabili di un tumore al cervello comune nei bambini. Si tratta del medulloblastoma, il cancro cerebrale maligno più diffuso tra i bimbi durante l'infanzia. La scoperta apparsa online su Nature è opera della Stanford University School of Medicine e del Lucile Packard Children's Hospital negli Stati Uniti. «Tendiamo a trattare tutti i medulloblastomi come una singola malattia, senza tener conto di quanto siano eterogenei a livello molecolare questi tumori», ha dichiarato Yoon-Jae Cho, docente di Neurologia a Stanford e autore della nuova ricerca. «Il nostro studio offre una visione ampia e specifica del background genetico dei tumori dell'infanzia, fornendo linee guida su come sviluppare nuove terapie». Il team ha estratto il Dna da 92 medulloblastomi confrontati con il Dna prelevato dai campioni di sangue dei piccoli pazienti. Le analisi hanno rivelato l'esistenza di significative "mutazioni puntiformi". Tra le nuove mutazioni identificate, quella relativa al gene Rna elicasi DDX3X. «Parliamo – ha puntualizzato il dottor Cho – della mutazione risultata più comune nei medulloblastomi»

Una proteina "blocca" immortalità cellule cancerose
Le cellule di un tumore hanno una sorta di immortalità, perché neutralizzano il naturale meccanismo con le quali le cellule sane invecchiano e poi muoiono. Ma è appena stato scoperto nel dettaglio il meccanismo con cui lavora una proteina capace di far ripartire questo meccanismo di "morte cellulare". È stato individuato dai ricercatori dell'Istituto nazionale tumori, con uno studio pubblicato sul Journal of molecular cell biology. La scoperta è stata effettuata per ora solo in provetta: ci vorranno quindi anni per sapere se potrà trasformarsi in una terapia efficace sull'uomo. In ogni cellula c'è una proteina, chiamata p53, che è una sorta di "guardiano" del Dna: quando c'è una grave alterazione, che potrebbe ad esempio scatenare un tumore, p53 si attiva e porta la cellula ad un suicidio programmato. In questo modo evita che si scateni la malattia. Ma le cose non sono così semplici: in un tumore, infatti, la proteina Sirt1 è in grado di bloccare p53, e quindi di mantenere le cellule tumorali in vita, creando le condizioni per sviluppare la patologia. E qui entra in gioco la proteina Dbc1: è in grado di bloccare Sirt1 (e quindi di evitare che venga ostacolato il suicidio della cellula danneggiata). I ricercatori dell'Istituto Tumori, con il loro studio, hanno approfondito il rapporto che lega queste due proteine. «La nostra ricerca – spiega Domenico Delia, responsabile della Struttura meccanismi molecolari di controllo del ciclo cellulare dell'Istituto – ha studiato la presenza di queste proteine e come interagiscono tra loro nel tumore del seno. Tuttavia queste molecole sono presenti e coinvolte nel ciclo vitale di tutte le cellule, e questo implica che i risultati di questa ricerca sono applicabili a diverse forme di cancro. Si aprono quindi importanti prospettive di ricerca: possiamo studiare nuove strategie terapeutiche che aumentino la presenza nell'organismo e nei tessuti del tumore di Dbc1, contrastando così l'azione ringiovanitrice di Sirt1 e spingendo al suicidio le cellule tumorali».

Dieta e cancro
Esistono evidenze ampiamente riconosciute sul fatto che uno stile di vita equilibrato, che preveda anche una sana alimentazione, può aiutare a prevenire l'insorgenza di alcune forme tumorali. Le regole del World Cancer Research Found sono infatti universalmente riconosciute, e valgono non solo per l'aspetto oncologico, ma anche sotto il profilo cardiovascolare: mantenere l'indice di massa corporea nei limiti della norma, fare una regolare attività fisica, evitare l'assunzione di bevande zuccherate e di cibi ad alta densità calorica in modo continuativo, limitare il consumo di carne rossa e alcolici e cercare di assumere almeno 4-5 porzioni di frutta e verdura al giorno. L'alimentazione è importante per tutti, ma con obiettivi diversi: se per la persona sana gioca un ruolo preventivo, e quindi sul lungo termine, per chi è in trattamento oncologico essa è connessa al tempo della cura ed è primariamente finalizzata a mantenere un buono stato nutrizionale, che consenta di effettuare le terapie oncologiche riducendo gli effetti collaterali e migliorando la qualità di vita. L'alimentazione, inoltre, non deve interferire con le terapie, per cui non esistono degli alimenti che, se presi in grandi quantità o eliminati, siano in grado di migliorare o peggiorare la propria condizione. I cibi devono essere sani e in grado di favorire la funzione depurativa degli organi emuntori, cioè fegato, rene e intestino, che già sono "stressati" dal peso della chemioterapia, e garantirne il buon funzionamento, al fine di eliminare più rapidamente la tossicità dei farmaci. In questo senso frutta e verdura, in special modo le ombrellifere, come carote, finocchi, sedano, sono vegetali con proprietà depurative. Quando si affronta la malattia oncologica è bene viziarci e coccolarci: ancor meglio se qualcuno prepara per noi, con fantasia e amore, pietanze appetitose. Tuttavia, non dobbiamo dimenticare che se il nutrimento equilibrato non si accompagna a un'attività fisica, magari anche limitata a una passeggiata nel verde, a un sonno adeguato e a una riduzione delle occasioni di stress, può perdere buona parte dei suoi benefici. Circa un 30% delle donne con tumore al seno perde peso, e un 50% tende invece ad aumentare. Entrambi i problemi vanno tenuti in considerazione: la modificazione del peso corporeo, sia in aumento, sia in eccesso, è un fattore che deve essere sicuramente corretto.

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