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Cancro, le nuove frontiere terapeutiche
Vera Lanza, N. 4 aprile 2011
Scienziati, docenti e giovani ricercatori si sono incontrati e confrontati in occasione del workshop Hot Topics in Oncologia, che si è svolto presso il Dipartimento di Medicina Chirurgia e Odontoiatria dell’Università degli Studi di Milano. Si è trattato di una giornata dedicata alla ricerca in ambito oncologico che ha coinvolto ricercatori clinici e di base appartenenti sia al Dipartimento dell’Università degli Studi di Milano sia ad altri importanti istituzioni dell’area milanese impegnati nella ricerca oncologica. Nel ricco programma la presentazione di letture magistrali sugli argomenti più attuali, tenute da ricercatori esperti, tra i quali: Silvio Garattini dell’Istituto Mario Negri, Pier Paolo Di Fiore e Salvatore Pece IFOM-DMCO, Emilio Bajetta e Paolo Radice dell’Istituto Nazionale dei Tumori, Silvano Bosari, Lidia Larizza e Paolo Foa del DMCO, Massimo Locati dell’Istituto Clinico Humanitas. «Il Workshop Hot Topics in Oncologia è stato progettato come un’occasione per incontrarci con scienziati, docenti, giovani ricercatori e studenti dell’area milanese sul tema dell’oncologia, per favorire e valorizzare le nostre collaborazioni scientifiche, iniziando dal dialogo e dal confronto tra gruppi di ricerca milanesi, come l’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri, l’Istituto Nazionale Tumori, l’Istituto Clinico Humanitas, strutture di grande rilievo nel panorama scientifico nazionale e internazionale», afferma la Professoressa Anna Maria Di Giulio, direttore del Dipartimento. «Il nostro è il più ampio Dipartimento, in termini di numerosità di ricercatori e docenti, dell’Ateneo milanese e comprende il Polo Universitario San Paolo, sede del corso di laurea in Medicina e Chirurgia e il Campus di ricerca biomedica IFOM-IEO, centro di eccellenza nella ricerca sul cancro», prosegue la Professoressa Di Giulio. «Al suo interno operano ricercatori con competenze specialistiche nell’ambito della medicina rigenerativa, delle malattie cardiovascolari, delle malattie infettive e delle malattie rare; per queste ultime siamo Centro di Riferimento della Regione Lombardia. Questo evento rappresenta sia per i ricercatori più affermati sia per i nostri giovani ricercatori un’occasione di confronto sui temi più innovativi della ricerca oncologica: i nuovi approcci molecolari e le nanotecnologie necessarie per svelare i meccanismi della trasformazione tumorale, le cellule staminali, i farmaci biologici e la terapia personalizzata, la predisposizione genetica allo sviluppo di neoplasie. Mi auguro che questa giornata possa favorire proficui scambi di idee per l’avvio di nuovi progetti e fruttuose collaborazioni».
Durante i loro interessanti interventi Emilio Bajetta, direttore dell'Istituto di Oncologia del Policlinico di Monza e Silvio Garattini, dell’Istituto Mario Negri di Milano, si sono soffermati, tra le altre cose, sull’importanza di avere terapie sempre più personalizzate.
«La personalizzazione della terapia è un processo inarrestabile, estremamente avvertito» è intervenuto Bajetta. «Già da ora per diversi farmaci biologici il criterio di rimborsabilità dipende da specifiche caratteristiche di esistenza o meno dell’alterazione genetica. I test che permettono l’evidenza delle mutazioni sono indispensabili e obbligatori, e non esiste il rischio che non siano superpartes. Nelle terapie personalizzate non esistono per una singola persona ma per gruppi con le stesse caratteristiche biologiche». Secondo Garattini «la vera personalizzazione della terapia è la prevenzione. Le case farmaceutiche farebbero bene a pubblicare anche i risultati negativi degli studi sui farmaci e non solo quelli positivi. La mortalità è diminuita ma (toglierei il “ma”) soprattutto grazie alla diagnosi precoce. Spesso vengono dispensate cure che servono ad allungare la vita del paziente di pochi mesi, con costi sproporzionati alla reale aspettativa di vita del paziente. Per quanto riguarda i biosimilari, faremo fatica a vederli immessi sul mercato per le barriere poste dalle case farmaceutiche».
Anche Lidia Larizza, Genetica medica DMCO di Milano si è soffermata su questi punti. «Delle terapie personalizzate se ne parla molto, spesso anche al di là della realtà. La biomedicina esiste davvero» ha affermato. «È dimostrato che la risposta ai farmaci per patologie anche complesse non è uguale per tutti gli individui. Per esempio, alcuni metabolizzano lentamente, alcuni rapidamente, quindi già questo parametro può cambiare il dosaggio. Un altro elemento importante sono le variazioni del genoma, che rendono efficace o meno la terapia. In oncologia e psichiatria la personalizzazione della terapia già esiste per quel che riguarda i raggruppamenti per gruppi familiari. La massificazione dei test permette anche costi sempre più ridotti. Oggi con il progetto mille genomi dovremmo riuscire a determinare le differenze individuo per individuo. Ad esempio, a parità di contaminazione da HIV, alcuni sono “slow progressor” altri no e ciò dipende da alcune variazioni personali che permettono l’andamento del ciclo di riproduzione del virus. La tipizzazione deve essere poi seguita da un’adeguata cura personalizzata».
I farmaci biologici
Nel suo intervento al workshop la dottoressa Giovanna Finocchiaro, dell’Istituto clinico Humanitas IRCCS di Rozzano (MI), ha sottolineato come negli ultimi 2 anni sono stati presentati almeno 4 studi di fase III i quali hanno dimostrato che i pazienti con mutazione attivante dell’EGFR, trattati con gefitinib, hanno una significativa riduzione del rischio di progressione rispetto ai pazienti trattati con chemioterapia; mentre i pazienti che non presentano la mutazione dell’EGFR hanno un maggior vantaggio in termini di risposta e di tempo libero alla progressione se trattati con chemioterapia, sottolineando come in presenza di un target molecolare preciso il farmaco biologico è più efficace della chemioterapia standard. «Il trattamento del carcinoma polmonare - ha spiegato Finocchiaro - sta progressivamente cambiando e da una fase di empirismo in cui tutti i pazienti venivano trattati allo stesso modo si sta passando ad una “personalizzazione” delle terapie. L’analisi mutazionale, sebbene non sia l’unico test disponibile, rappresenta sicuramente il test migliore per selezionare i pazienti candidati a una terapia con inibitori tirosin chinasici. In futuro sarà possibile che nuovi test più accurati e meno costosi possano affermarsi con l’obiettivo di garantire al paziente un prolungamento della sopravvivenza e un miglioramento della qualità della vita».
Intervista a Paolo Di Fiore
Professore Ordinario di Patologia Generale presso il Dipartimento di Medicina, Chirurgia e Odontoiatria dell'Università degli Studi di Milano.
Si sente sempre più spesso parlare di rivoluzione in ambito oncologico e, in alcuni casi, di raggiungimento di importanti traguardi. Perché adesso e a che traguardi ci si riferisce?
«Oggi stiamo vivendo un importante periodo storico-scientifico. A cinquant’anni dalla scoperta del DNA, stiamo riportando “il paziente al centro” delle cure, a un’umanizzazione della medicina dal punto di vista psicologico ma soprattutto biologico. Ogni paziente è un caso a sé e finalmente stiamo cominciando a conoscerlo in maniera soggettiva, con la prospettiva – in tempi ragionevoli – di trattarlo come tale, con cure del tutto personalizzate. È oramai risaputo che i farmaci hanno effetti diversi a seconda del profilo genetico del singolo. Queste informazioni ognuno di noi le porta con sé, bisogna solo imparare a leggerle e ad agire di conseguenza, soprattutto nella somministrazione di farmaci altamente tossici, come per esempio accade nel campo dell’Oncologia».
Come?
«Come detto, il problema dei farmaci antitumorali non è l’efficacia, ma la tossicità. Come ottenere quindi farmaci che ne producano meno? Seguendo varie strade. Una di queste è rappresentata dai farmaci molecolari, che colpiscono selettivamente le alterazioni presenti nelle cellule tumorali. Visto che queste alterazioni non sono presenti nelle cellule normali, i farmaci risultano meno tossici. La seconda è la “stratificazione molecolare” della malattia. In pratica, identificando le alterazioni genetiche nel singolo paziente, siamo in grado di attuare terapie idonee per quel paziente specifico. Il Tarceva, farmaco usato per i malati di cancro al polmone, per fare un esempio, va somministrato solo su pazienti con l’EGFR mutato così come il Trastuzumab, utilizzato nel trattamento del carcinoma mammario, è efficace solo con il recettore HER2-positivo. Ma la prospettiva forse più interessante è quella di comprendere meglio, a fini terapeutici, il paziente e non solo la sua malattia. Di questo si occupa la farmacogenetica e la farmacogenomica, che eseguendo “fotografie” molecolari del paziente (non della malattia) ci indica come somministrare un farmaco (a che dosi, per esempio). Questo approccio non solo permette il miglior utilizzo di farmaci già a disposizione mentre se ne sviluppano di nuovi con gli approcci molecolari, ma ci permette anche la cura del paziente come un “unicum” individuo-malattia, piuttosto che curare la sola malattia. Il punto di arrivo è quello che chiamiamo “terapia personalizzata”. Va detto che questo non è ancora una realtà, ma le speranze sono che lo diverrà in tempi brevi».
Qual è la “macchina fotografica” molecolare?
«Esiste oggi un metodo di sequenziamento del DNA, il Pyrosequencing, realizzato appositamente per studiare gli SNPs (mutazioni puntiformi o polimorfismi a singolo nucleotide). Sul DNA, composto da circa 3 miliardi di basi, basta una singola mutazione di uno dei 100.000 geni per modificare una delle proteine che danno suscettibilità a diverse malattie e/o diverse risposte ai farmaci. Più si studia in profondità e accuratezza, più si scopre l’importanza degli SNPs, che costituiscono il 90% delle mutazioni umane. Da qui la possibilità di indirizzare, attraverso test - che devono essere indispensabilmente di qualità - il dosaggio e quindi l’azione dei farmaci molecolari. Questa è l’espressione della farmacogenetica e della farmacogenomica, scienze che studiano i fattori genetici alla base delle differenze nella risposta ai farmaci dei singoli pazienti e che evitano un utilizzo spesso controproducente dei farmaci, causa di effetti collaterali troppo pesanti, talvolta letali. La rilevazione di queste mutazioni ha quindi un importante impatto nelle decisioni della pratica clinica: il farmaco giusto per il paziente giusto».
Come si è arrivati qui?
«Dalla combinazione degli studi di genomica, di stratificazione molecolare della malattia e, speriamo sempre di più, dagli studi di farmacogenomica. Queste tecnologie avanzatissime ci offrono una miriade di nuove opportunità ma c’impongono scelte cliniche sempre più decise. Come la creazione di una nuova figura professionale, l’oncologo molecolare, indispensabile per un dialogo immediato ed efficace tra letto del malato e laboratorio. Figura di vasta competenza che ponga domande cliniche e al tempo stesso possegga le competenze necessarie per identificare gli itinerari di ricerca necessari alla soluzione delle domande stesse».
Le terapie personalizzate costeranno di più? E i farmaci?
«È evidente che un paziente, se trattato in maniera più efficace e in tempi più rapidi, costa meno, sia per la migliore qualità della vita che gli si offre, sia per il minor periodo di degenza ospedaliera. È altrettanto ovvio che i farmaci molecolari sono costosi. Per ovviare al problema è necessaria un’inversione di rotta per quanto riguarda la ricerca e lo sviluppo. Oggi, per molti motivi, per un farmaco che arriva al paziente la casa farmaceutica ne studia cento che non hanno lo stesso successo, con la conseguente incidenza preponderante sui costi. Bisogna quindi ripensare il sistema e riportare in ambito accademico la ricerca e lo sviluppo farmacologico. Al momento il sistema è basato unicamente sul mercato e questo si concilia male, in molti casi, con le esigenze del paziente e dell’assistenza medica in generale. Occorre essere creativi, e anche innovativi, per slegare, nei limiti del possibile, il sistema della scoperta farmacologica dalla pura ottica del mercato: qualcosa che forse abbiamo più possibilità di fare in Europa che in America».
Trattamenti integrati: perché e come
Dall’intervento di Paolo Foa, U.O. Oncologia Medica, A. O. San Paolo - Polo Universitario
Nel 1894, William Halsted proponeva l’intervento di mastectomia radicale per il trattamento del carcinoma mammario, nella convinzione che l’asportazione chirurgica il più ampia possibile fosse la premessa necessaria per una elevata probabilità di guarigione. Nel 1985, Bernard Fisher dimostrava che la chirurgia conservativa della mammella associata a radioterapia ottiene gli stessi risultati dell’approccio demolitivo. Nel 1995, Gianni Bonadonna evidenziava che nei casi con coinvolgimento linfonodale ascellare, l’aggiunta di un trattamento chemioterapico a quello loco-regionale ha un impatto favorevole sul rischio di recidiva e quindi sulla sopravvivenza, confermando l’ipotesi che in queste pazienti il cancro della mammella sia caratterizzato già al momento della diagnosi da una diffusione micrometastatica. Nel 1998, ancora Bonadonna documentava come una terapia sistemica somministrata a pazienti con tumore mammario di elevate dimensioni, e quindi non asportabile in modo conservativo, consenta di ottenere una riduzione volumetrica tale da ricondurre la lesione entro i limiti di un intervento non demolitivo. Nel 2003, Orecchia e Veronesi descrivevano come la radioterapia intraoperatoria in corso d’intervento di quadrantectomia offra risultati sovrapponibili rispetto alla radioterapia convenzionale esterna, quest’ultima caratterizzata da una durata di 25-30 sedute giornaliere.
«Il progresso - è intervenuto Paolo Foa - nel corso del tempo della strategia di trattamento del carcinoma mammario, guidato dalle nuove conoscenze cliniche e biologiche nonché dall’acquisizione di farmaci e tecnologie innovative, è paradigmatico di quanto sta avvenendo anche per altri tipi di neoplasie, come i tumori del tratto gastroenterico, del polmone, del distretto cervico-facciale. Questa evoluzione concettuale e applicativa ha fatto sì che i trattamenti integrati costituiscano oggi una frontiera avanzata delle terapie oncologiche».
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